Cura dell’Anima
Aprire la discussione sulla filosofia come “cura dell’anima” significa potersi confrontare con un grande compito storico, soprattutto se teniamo presenti le molteplici sfide che ci ha lanciato in questi ultimi mesi la “realtà pandemica”: sfide di ordine biologico, etico, politico, psicologico, educativo. Di fronte alla radicale trasformazione dell’esperienza dello spazio e del tempo – individuale e sociale – alla quale siamo andati incontro negli ultimi mesi, abbiamo avuto la prova di quanto l’essere umano nutra una grande vocazione intersoggettiva: vocazione irrinunciabile, perché costitutiva della sua essenza squisitamente umana che non può non dispiegarsi nello spazio e nel tempo. Questa vocazione è strettamente dipendente dal corpo vivente, dalla “carne”. La vita non è solo un dato ma anche un processo: include tanto gli enti biologici che le stesse produzioni culturali. Eppure, proprio in quanto tecnologicamente sovraesposto (e spesso “intossicato”), nonché inserito nella trama di relazioni esclusivamente virtuali, l’io vede indebolirsi sempre di più la prospettiva di un’esistenza condotta a diretto contatto con la materia vivente, e perciò foriera di intuizioni. Come diretto corollario di quest’ultima considerazione, viene meno il bisogno vitale di autonomia interiore, condizione indispensabile per mettere in pratica una più completa “cura di sé”. Non solo, si indebolisce con questo anche la spinta della volontà, lo “slancio” che anima sia la dimensione umana che il vivente in generale.
Rivolgendosi all’Europa borghese di fine Ottocento, con un linguaggio molto evocativo, il giovane Nietzsche affermava: “Ah, lo vedo bene, voi non sapete che cosa sia l’isolamento! Dove vi sono state possenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, insomma ovunque fosse una tirannide, essa ha odiato il filosofo solitario; giacché la filosofia schiude all’uomo un asilo dove nessuna tirannide può penetrare, la caverna dell’intimo, il labirinto del petto: e ciò indispettisce i tiranni” (F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, § 3.).
Facendo tesoro di queste preziose considerazioni nietzschiane, occorre ripartire dalla valorizzazione del tempo interiore – che Agostino definiva non a caso distentio animi, letteralmente “estensione o contrazione dell’anima” e poi Henri Bergson identificava direttamente con la “durata pura”, associandolo allo svolgimento di una frase musicale – per fare in modo che assurga a strumento di riconfigurazione dell’ordine sociale: occorre in tal senso prendersi più tempo per in modo da fare più spazio a. Un diverso modo di vivere il tempo dovrebbe consentire un diverso modo di progettare e vivere gli spazi, in particolare quelli pubblici.
Dalla interazione dinamica tra tempo e spazio, dovrebbe poter scaturire il bisogno di un nuovo principio di realtà che non si identifichi più, come è accaduto sino ad ora, con il principio di prestazione: alta capacità performativa ma scarsissima attitudine predittiva; dispersione e accelerazione temporale; colonizzazione predatoria degli spazi liberi, ad esempio nelle politiche urbanistiche; utilizzo dello spazio pubblico esclusivamente come “zona di transito” e non invece come sosta, ovvero come luogo del “dimorare” riflessivo e partecipativo. La revisione del modello “prometeico” che ha consumato con estrema velocità troppo spazio e troppo tempo a livello globale non può corrispondere tuttavia ad un arresto totale ed incondizionato dell’azione umana, come si è visto accadere paradossalmente a seguito della rapida diffusione del coronavirus, con la conseguente paralisi della volontà collettiva.
Riconfigurare alcuni modelli di esistenza reificanti dovrebbe corrispondere piuttosto al potenziamento di una nuova capacità progettuale, ovvero ad una visione etica e politica alternativa, più aperta all’immaginazione, alla creatività e al bisogno di utopia, soprattutto per vincere le sfide tanto dei populismi che dei pensieri (e dei pensatori) dicotomici, che non ammettono le sfumature e le gradazioni ma interpretano la realtà soltanto attraverso categorie ormai desuete, inducendo così false sicurezze oppure, nei casi ancora peggiori, depressione sociale. Significa ricominciare a pensare “in grande”, adottando uno stile di pensiero che molti giovani studenti hanno ancora la fortuna di maturare nel nostro glorioso Liceo Classico. Significa ripartire da un lavoro di cura delle emozioni, anche di quelle più negative, come la paura, il disgusto o la rabbia, che molto stanno incidendo nella percezione dell’epoca presente. Significa ridare voce al “sommerso”: nei sentimenti, nelle emozioni, nelle percezioni, nelle azioni, recuperando il legame tra mente e mondo, e dunque con lo sfondo virtuale e fluttuante che sta dietro ad ogni nostra esperienza. Tale riconfigurazione dell’esperienza individuale e sociale non può che includere in sé la pratica della solidarietà, intesa soprattutto come filosofia del legame, ma anche abitudine ad elaborare la perdita, la distanza, il mutamento. Occorre pertanto recuperare un atteggiamento di sano realismo, certamente non oggettivante, ma un realismo “vivo”, giacché capace di mettere in risalto tanto i punti di forza che le contraddizioni dell’esperienza sociale e finanche storica, in modo da porre sempre più soggetti nelle migliori condizioni per un adattamento critico e responsabile all’ambiente: naturale e sociale insieme. La solidarietà diventa in questi casi sinonimo di emancipazione e di riscatto collettivo.
Prof. Riccardo Roni