Il Museo d’arte Sacra di Camaiore (I nostri monumenti)..di Giovanni Scarabelli

Giungendo a Camaiore, da qualunque parte si provenga, ci si imbatte – tra gli altri – in un cartello segnaletico turistico un po’ diverso dagli altri: “Museo d’arte Sacra”. Sempre di fretta quel cartello ogni volta incontrato mi metteva una strana sensazione, quasi di tradimento, una specie d’insofferenze e di rimprovero. Era un richiamo, sempre.

Mettendo al bando, una volta tanto, mi sono decios ad una sosta. Ho seguito le indicazioni del cartello, ho suonato alla porta del custode del museoe mi son preso tutto il tempo per gustarmelo a dovere. Una esperienza veramente singolare. Fra i numerosi “pezzi” presentati – quasi tutti d’altissimo valore artistico, illustrati fra l’altro in due pubblicazioni di Franco Bellato “Camaiore Valle di Luce” e “Camaiore e d’intorni- guida turistica” – tre in particolare mi hanno suggestionato. Quanto qui di seguito mi permetto presentare è il frutto dell’esperienza di questa visita. Lo stile è forse troppo poetico ed eccede ad amplificazioni che sfiorano magari la retorica. L’unica speranza che ho è che qualcuno si senta sollecitato, nella frenesia di un correre quotidiano spesso senza senso, ad una breve sosta: sono certo che ne guadagnerà in umanità.

Il Tempo – squallido tiranno di nostri brevi giorni, feroce auriga di nostre affannose corse e disumanizzanti nevrosi – è corso via, obliato e vinto, quando mi sono seduto in contemplazione di bellezze antiche eppure mai passate, filtrate in sapienti forme, saporoso frutto di artistico ingegno, lì, nello spazio angusto purtroppo, di un angolo in Borgo Vecchio di Camaiore, a fianco della chiesetta di S. Michele – distrutta da furia bellica e ricostruita in pristine forme protoromaniche. Per solenne scalinata in pietra s’accede all’austera residenza di Compagnia che Tommaso Pezzini, camaiorese con gusto architettonico sobrio, quasi classicheggiante, ha costruito e di solido legno arredato nel fastoso secolo dé Lumi.

Lo sguardo però costringe l’intelletto e il cuore ad aprirsi a stupore, commozione, ed esaltazione – immobile il corpo – di fronte ai fili che mano ispirata, forse di Peter di Pannemaker, su fulgida intuizione d’arte suprema ha tessuto in fiammingo arazzo ai primi tormentati passi del secolo sedicesimo, memore ancora dell’esperienza lucida, trasparente del Quattrocento più grazioso, la data: 1516. Ancor sommersi nell’aura sottilmente misteriosa dell’Ultima Cena giunta a Camaiore da chi sapeva guardare “lontano”, oltre gl’italici confini per attingere all’universale bello, nella seconda sala sembra che s’avanzi incontro, meglio, che attenda raccolta in secolare trepido ascolto una Madonna Annunziata.

Il volto t’attrae – il resto è nulla. La svettante linea del gotico – invita all’alto o superba ascesa al cielo? – si ritrova ancora in questa lignea statua, già aperta però l’espressione a quella “misura d’uomo” che segna indelebilmente del suo carattere la fascinosa avventura del Quattrocento. Sole aria e spazio possono essere di contorno a questa pura linea che t’incanta, t’avvince, dentro ti fa penetrare – benchè irrisolto – il Mistero d’un saluto d’eterne dimensioni. Chiudi gli occhi ed un canto ti sgorga dentro, nostalgia d’anni pieni di poesia, di stupore, di continui perchè in dolce ricerca d’un domani carico di speranze appena spuntate. Chi fù l’autore? Il nome non ci è giunto. Certo che contemplò estatico prima di tradurre in linea il puro. Certo che respirò senza riserva il nascosto verbo dell’amore in una meravigliata natura incorrotta, prima di dire – allora, oggi sempre – “Ave, di grazia piena”.

M’è forza proseguire. Ma vien trattenuto lo sguardo dall’esplosione d’una toscana di fervida invenzione artistica, “madre” all’Europa intera. Francesco D’Andrea Anguilla – così dicon le carte polverose d’archivi che son nostra memoria – dipinse sempre nel Quattrocento il polittico che quasi t’aggredisce sotto il facsio di luci rabbiose. Bisogna far con mano paravento agli occhi per vedere balzare dai fondi d’oro antico le possenti figure di Santi che fan corona a dolcissima Madre cui s’abbandona in fidente gioco il figlio. Quel Figlio che ancor sopra s’erge in figura di Maestro e sotto “non ha sembianze d’uomo” presentato a furente popolo ingordo di sangue e di morte. E ancora Santi in pinnacoli fioriti ed in formelle austere, quasi a dirci quel tutt’uno ch’è con noi la vicenda del Cristo.

Il tempo, obliato e vinto ma non escluso riaggredisce con tutta la sua furia, si riappropria del tuo cammino, ti fa correre nuovamente sotto la sua incessante sferza. Ma un attimo?un’ora? una vita? non so! l’ho pur a lui strappata. Ho contemplato il bello. Mi sono appropiato dell’eternità. Ed ora , anche nell’usato cammino feriale, una libertà nuova m’accompagna, una ricchezza rara m’inonda, che neppur il tempo può depredare. “Tardi ti ho amato, o Bellezza così antica e tanto nuova, tardi t’ho amata!” (Agostino d’Ippona).

Può darsi che questo mio piccolo contributo solleciti il pubblico a visitare un patrimonio di fede e d’arte di singolare valore, non solo per Camaiore, ma per tutto il nostro territorio.

Monsignor Giovanni Scarabelli

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